I fiori e le spine di Addis Abeba | Nella città dei colori e dei perché
Eccomi arrivata dall’altra parte dell’orizzonte! Attraversare il mare, il deserto, una manciata di confini politici.. in sei ore scarse su una comoda poltrona d’aereo.. e tutti mi chiedono com’è andato il viaggio? Il mio viaggio troppo bene… ma: perché lo stesso viaggio, in senso opposto, dal Sud al Nord, deve essere un inferno o forse un suicidio, per così tante persone? Per esempio, per il bigliettaio del minibus che presto partirà per la sognata Europa? Ed ancora.. perché quando cammino le per strade piene di gente, asini, macchine ed autobus stracolmi, tutti ridono o sorridono quando vedono me “forengi” (bianca); mente nelle nostre ordinate città e paesini la reazione a chi ha un colore diverso è solo insicurezza, paura, disprezzo o indifferenza? Perché un bimbo di meno di sei anni trascina un sacco pieno di sabbia per un cantiere edile mentre i nostri sono appena stati sommersi da chili di regali di natale? Perché la ragazzina con gli occhi belli e tristi che lava i panni sotto la mia finestra per i vicini di casa riceve soltanto ciò che avanza dalla cena e un tetto sulla testa per tutto il lavoro che fa?
Queste e molte altre domande, forse banali e inutili, mi frullano in testa da quando mi sono catapultata ad Addis Abeba, questa metropoli che si chiama Nuovo Fiore! E qui di fiori ce ne sono tanti. Non parlo solo delle campanelle blu e delle bouganville sparse in mezzo ai palazzoni in costruzione, ma anche di quelle persone e di quei luoghi che donano colore e profumo. Come il caffè a fianco all’ufficio dove ci si siede sugli sgabellini per strada a chiacchierare e scherzare con le cameriere e con gli altri clienti mai visti prima. Come Tedros Kassahun, il cantante di cui mi ha parlato Jonas, il mio insegnate di Amarico (lingua nazionale), che conserva di coraggio di cantare le ingiustizie della sua gente nonostante sia stato due anni in prigione per questo. Come le strade strette, piene di bambini che giocano, della spezia berberè (rosso fuoco, più piccante del peperoncino) che si secca al sole e della musica che esce dappertutto. Come il mendicante che fa la carità a quel fagotto per terra avvolto negli stracci che penso sia un bambino addormentato. Come una signora che quando mi ha visto camminare per strada verso mezzogiorno mi ha chiesto se volevo il suo orbello tutta preoccupata che mi bruciassi la mia preziosa pelle bianca.
Spero che tutto questo, che ora mi colpisce a volte forte, non inizi a scivolarmi addosso.. non voglio abituarmi né ai fiori né alle spine di questa città, vorrei solo saper digerire e raccontare ciò che ora mi lascia senza parole.
Elena Paolazzi