A lume di candela | Il racconto di Laila, in servizio civile a Injibara, Etiopia.
Scrivo a lume di candela, o meglio, a lume di “shama”. Da più di 12 ore, infatti, qui ad Injibara, cittadina nel nord ovest dell’Etiopia è saltata la corrente e non sappiamo quando ritornerà. Questo purtroppo non è un evento isolato, succede praticamente tutti i giorni. I ragazzi che vivono vicino a me devono fare i compiti per il giorno dopo e li vedo dalla finestra chini sui loro quaderni, anche loro a lume di candela. Injibara è situata a 2800 metri di altitudine, il clima è piuttosto fresco e molto piovoso, altro che Africa! Gli uomini e le donne si riparano dal freddo con il “gabi”, un mantello bianco molto pesante e camminano, camminano, sempre a piedi nudi. In Etiopia oltre il 30% della popolazione vive sotto la soglia di povertà ed il restante 70% non si può certo dire che viva nel lusso. I mezzi di trasporto più utilizzati sono sempre e comunque i propri piedi. Gli abitanti di queste meravigliose montagne riescono a percorrere distanze enormi a piedi nudi, molto spesso caricando in testa dai 25 ai 50 litri d’acqua contenuti nei “gericans”, apposite taniche gialle. L’acqua, questo bene prezioso che noi diamo assolutamente per scontato. Ad Injibara ed in gran parte dell’Etiopia l’acqua non c’è, o meglio, non c’è un’adeguata fornitura d’acqua corrente. Il sistema di distribuzione non è diffuso in tutto il paese e anche dove è presente spesso non funziona a causa di numerose problematiche. Così ad Injibara come in tanti altri villaggi l’acqua viene raccolta dai fiumi o da sorgenti naturali o da pozzi spesso molto lontani.
CVM da ormai trent’anni mette in protezione le sorgenti, costruisce pozzi, cerca insomma di rendere i tragitti di donne e bambine con i gericans gialli in testa sempre più brevi. Non avere acqua e non avere corrente elettrica rende ogni cosa più lenta e difficile. I bambini prima e dopo la scuola aiutano le famiglie a a pascolare le pecore, spesso unica fonte di reddito; a spaccare la legna per scaldarsi e per cucinare; a gestire i piccoli “souk”, i negozietti in lamiera dove si possono trovare dai biscotti ai detersivi per pavimenti. Molte ragazze ancora giovanissime si muovono dalle aree rurali verso i villaggi più vicini in cerca di un lavoro e diventano così domestiche, cameriere, bariste e col tempo, spesso, prostitute. La vita bussa alla porta delle
case di fango con forza, entra senza chiedere il permesso e pretende duro lavoro e tanta pazienza. S’impara a sopravvivere e a credere che il domani sarà migliore.
Confronto la mia “vita precedente” con quella delle persone che adesso mi circondano e mi rendo conto di quanto siamo abituati alle comodità, a poter risolvere qualunque problema facilmente e in breve tempo. Lamentarsi, essere pigri, indolenti, in Etiopia non è contemplato. Quanto vorrei che chi sta bene, chi riesce a soddisfare le proprie esigenze di base comodamente seduto nel proprio divano, si rendesse conto che c’è tutta un’altra parte di mondo che funziona in un altro modo, anzi la maggior parte forse. Quando vedo bambine di massimo cinque anni lavare a mano i panni e trasportare in testa taniche d’acqua più grandi di loro, ripenso ad una manciata di versi di “Città vecchia” di Umberto Saba: “… io ritrovo, passando, l’infinito nell’umiltà.”
Laila Anton