
Storie di volontariato: Addis Abeba attraverso i miei occhi
di Ester Orso, civilista CVM Etiopia
Alla domanda se potessi descrivere in breve il primo impatto sull’Etiopia probabilmente chi legge si aspetterebbe i classici aggettivi che un qualsiasi cittadino europeo utilizzerebbe per descrivere il continente Africano. Questo comprenderebbe probabilmente una descrizione edulcorata sull’accoglienza, i colori sgargianti e i profumi speziati. E in effetti, sarebbe impossibile negare che questi elementi generino davvero un impatto forte e coinvolgente. Forse perché, per ritrovare l’uso pieno dei sensi e riscoprire l’autenticità delle relazioni umane, abbiamo bisogno di confrontarci con realtà lontane dalla nostra.
Eppure, se dovessi raccontare il mio primo impatto con l’Etiopia – o per essere più precisa con Addis Abeba – lo riassumerei con un aggettivo soltanto: caotico.
A distanza di giorni dal mio arrivo, quell’aggettivo iniziale continua a sembrarmi il più adatto per descrivere Addis Abeba. Ma è un caos che non coincide con il disordine. Un movimento che disorienta, ma che allo stesso tempo mi obbliga a riconsiderare ciò che considero “normale” in una città.
Addis Abeba è in costante trasformazione: è un teatro di passaggi e di presenze, attraversata da chi parte, da chi ritorna, e da chi cerca rifugio. Le giornate scorrono con intensità, ma non per tutti allo stesso modo: c’è chi si muove veloce tra uffici e una sosta in pasticceria, chi lavora per strada fin dalle prime luci dell’alba, indipendentemente dal clima, e chi osserva la vita seduto sull’asfalto.
Scattando una prima fotografia della città si coglierebbero subito i grandi palazzi bancari dalle vetrate lucide e gli edifici statali incorniciati da prati ben curati. Ma uno sguardo più attento, capace di oltrepassare la superficie, noterebbe già tra le strade di questo panorama ordinato delle soggettività che, forse, risulterebbero fuori posto per uno sguardo occidentale.
La cosiddetta marginalità sociale, infatti, non si trova ai margini: attraversa il centro, interrompe e interroga il ritmo frenetico della città. Così, camminando lungo una strada costellata di grattacieli e corpi in movimento, ho incrociato una persona con le gambe monche che si muoveva in quadrupedia. Portava una borsa tra i denti e cercava, con ostinazione silenziosa, non di farsi notare, ma semplicemente di esistere nello spazio urbano.
La grande capitale etiope riproduce in modo emblematico una dicotomia che attraversa molte metropoli contemporanee, ma che qui appare ancora più marcata. Da una parte, il paesaggio urbano riflette i progressi economici e tecnologici: grandi strade asfaltate, piste ciclabili, impianti di illuminazione dal design moderno. Un’estetica del progresso che però si manifesta spesso in spazi centrali poco vissuti, quasi svuotati della loro funzione sociale.
Dall’altra parte, vi è uno spazio urbano intensamente abitato e in continuo movimento, in cui il ritmo può rallentare solo davanti a un blackout elettrico, che rimane una realtà frequente nonostante la modernizzazione.
Addis Abeba è, in definitiva, una città che può offrire tutto: opportunità, servizi, esperienze. Ma ciò che si riesce a cogliere dipende in modo diretto dalla posizione di privilegio con cui ci si muove al suo interno. La possibilità di attraversare la città come spazio di opportunità o di esclusione dipende dalla posizione sociale di chi la percorre.