
Verso il 25 novembre – Tratta e lo sfruttamento lavorativo nel settore domestico in Etiopia
di Ester Orso, civilista CVM in Etiopia
La violenza di genere in Etiopia è un fenomeno strutturale e radicato nella società, che riflette le profonde disuguaglianze economiche e culturali. Le forme di violenza variano dalla violenza domestica allo stupro, dai matrimoni precoci alle mutilazioni genitali femminili, fino allo sfruttamento lavorativo e sessuale. Un dato particolarmente allarmante è che le vittime sono spesso minorenni, ragazze che subiscono abusi all’interno delle proprie famiglie o comunità.
La dimensione domestica di questa violenza non è solo fisica, ma anche simbolica e sociale. Le mura di casa, che dovrebbero rappresentare un luogo di sicurezza, diventano spesso spazi di oppressione. In questo contesto, si collocano anche le lavoratrici domestiche, una categoria di donne e adolescenti che vive una doppia invisibilità: da un lato, quella legata al genere; dall’altro, quella del lavoro informale e privo di tutele.
Porre l’enfasi sulla categoria delle lavoratrici domestiche consente di restituire complessità a un fenomeno che si colloca al crocevia tra violenza di genere, disuguaglianza economica e migrazione. Il lavoro domestico, infatti, rappresenta uno dei settori più femminilizzati e al contempo più vulnerabili, dove l’assenza di tutele regolamentari e di riconoscimento sociale contribuisce a riprodurre dinamiche di subordinazione e sfruttamento.
In Etiopia, la condizione delle domestic workers è strettamente connessa tanto ai processi di migrazione interna quanto a quelli di migrazione esterna.
La migrazione femminile dalle aree rurali verso le città o verso l’estero è spinta da povertà estrema, mancanza di opportunità, disuguaglianze di genere e norme patriarcali. Le donne, spesso giovani e con scarsa istruzione, cercano lavoro come domestiche, ma finiscono frequentemente in situazioni di sfruttamento, violenza o tratta.[1]
La tratta di esseri umani si sviluppa attraverso reti informali e illegali di broker (delalas), che approfittano della vulnerabilità economica e sociale delle migranti, promettendo impieghi o istruzione. Molte donne vengono così ingannate e costrette a lavorare in condizioni abusive, private dei documenti e della libertà.[2]
Anche la migrazione minorile è diffusa: molti bambini e adolescenti, inviati dalle famiglie per contribuire al reddito domestico, lavorano in condizioni precarie, spesso interrompendo gli studi.
Giovani donne e ragazze si spostano dalle aree rurali verso i centri urbani in cerca di impiego, ma spesso finiscono per lavorare in contesti informali, privi di contratti, garanzie salariali o protezione legale. Questa precarietà le rende esposte a forme di abuso, violenza sessuale e lavoro forzato, che si manifestano in un contesto domestico difficilmente accessibile al controllo pubblico.[3]
Parallelamente, molte di queste lavoratrici intraprendono successivamente la migrazione internazionale, dirette soprattutto verso i Paesi del Golfo, dove il rischio di sfruttamento e tratta si amplifica ulteriormente. Le donne etiopi, nella maggior parte dei casi, scelgono di migrare attraverso canali informali verso il Medio Oriente per impiegarsi nel settore domestico. Tali percorsi, sebbene spesso più costosi, vengono preferiti rispetto a quelli formali per la loro maggiore rapidità e accessibilità.
Nonostante la consapevolezza dei rischi, molte migranti ritengono che le probabilità di sfruttamento siano simili in entrambi i canali, poiché le condizioni lavorative dipendono principalmente dal datore di lavoro piuttosto che dalla legalità del reclutamento. Questa percezione è ulteriormente alimentata dalla sfiducia nei confronti dei reclutatori, spesso guidati da interessi economici, e dalla presenza diffusa di attori informali che operano nelle reti migratorie.[4]
Rispetto ai canali formali i percorsi irregolari richiedono meno passaggi burocratici e requisiti, come i corsi di formazione e in passato la documentazione educativa, i quali inevitabilmente rallentano i tempi di partenza. Nonostante gli sforzi del governo etiope, sia a livello nazionale che internazionale — tra cui le riforme istituzionali volte a contrastare la tratta di esseri umani, la digitalizzazione dei sistemi di reclutamento[5] e la stipula di accordi bilaterali con i paesi di destinazione — la migrazione irregolare continua a rappresentare la via più percorsa dalle donne. Questa scelta non è solo il risultato di vincoli economici e strutturali, ma riflette anche un disegno migratorio consapevole, in cui la ricerca di autonomia e autodeterminazione si intreccia con la necessità di sfuggire a condizioni di povertà, disuguaglianza e discriminazione di genere.
In questo contesto, oltrepassare le barriere legali e morali per migrare verso aspettative di vita migliori è considerato una strategia di sopravvivenza.[6]
Tra le maggiori criticità della migrazione verso l’estero per le donne sono le condizioni lavorative e di vita. Nei paesi del Golfo le migranti si trovano a confrontarsi con il sistema kafala, un modello di sponsorizzazione del lavoro che lega strettamente i lavoratori ai loro datori di lavoro, controllandone la possibilità di entrare e uscire dal paese o cambiare impiego.[7]
Questo sistema crea forte dipendenza e vulnerabilità, facilitando sfruttamento, abusi e violenze, soprattutto per le lavoratrici domestiche, spesso escluse dalle leggi sul lavoro. Chi tenta di fuggire o di difendersi da situazioni di abuso può essere detenuto in condizioni precarie, poiché la detenzione è spesso legata allo status legale derivante dal sistema kafala.
In questo contesto, molte lavoratrici straniere etiopi sono state oggetto di rimpatri forzati da parte delle autorità saudite, soprattutto a partire dal 2013, in seguito all’attuazione della politica di “saudizzazione” che mira a sostituire i migranti con cittadini sauditi. Queste deportazioni di massa, giustificate ufficialmente come controllo dell’immigrazione irregolare, hanno colpito in particolare le lavoratrici domestiche, spesso senza documenti o con contratti non riconosciuti, costrette a rientrare in Etiopia in condizioni di estrema vulnerabilità.[8]
La reintegrazione delle returnees, a seguito dei rimpatri forzati in Etiopia, si interfaccia a numerosi ostacoli e problematicità. In primo luogo, dal punto di vista economico. Le domestic workers rimpatriate si trovano sprovviste di risorse finanziarie in quanto spesso all’estero hanno vissuto in condizioni di sfruttamento senza percepire alcuna retribuzione. Inoltre, nelle aree di rientro, soprattutto rurali, vi è la mancanza di opportunità lavorative. In secondo luogo, le returnees si trovano ad affrontare la stigmatizzazione da parte delle comunità di origine, dove il rientro viene associato al fallimento se non è accompagnato al miglioramento delle condizioni finanziarie. Infine, le conseguenze psicologiche dell’esperienza migratoria rappresentano una delle sfide più profonde. Molte donne rientrano portando con sé traumi derivanti da violenze fisiche, abusi, detenzione o condizioni di sfruttamento prolungato. Queste esperienze generano sentimenti di paura, vergogna e perdita di autostima, che ostacolano la capacità di reinserirsi nella vita sociale e lavorativa.[9]
[1] Louise Yorke, Robbie Gilligan & Eyerusalem Alemu, Moving towards empowerment? Rural female migrants negotiating domestic work and secondary education in urban Ethiopia, Gender, Place & Culture, 31:6, 749-770, DOI: 10.1080/0966369X.2022.2164560, 2024.
[2] Erulkar A and Hailu E, Young female migrants and job placement brokers in Addis Ababa, Ethiopia, Front. Reprod. Health 6:1241571, doi: 10.3389/frph.2024.1241571, 2024.
[3] Bundervoet Tom, Internal Migration in Ethiopia, The World Bank Group, 2018.
[4]Shewamene, Zewdneh, et al, Migrant Women’s Health and Safety: Why Do Ethiopian Women Choose Irregular Migration to the Middle East for Domestic Work?, International journal of environmental research and public health 19.20, 2022.
[5] Negli ultimi anni il Governo etiope ha introdotto sistema E-LMIS (Ethiopian Labour Market Information System): una piattaforma digitale che raccoglie i dati biometrici e anagrafici dei migranti e delle agenzie di reclutamento autorizzate. L’istituzionalizzazione di tale sistema ha l’obiettivo di ridurre i canali illeciti e avere maggioro controllo sulle agenzie, sui contratti di lavoro e sull’intero percorso migratorio. Tuttavia, l’sistema E-LMIS presenta ancora diverse criticità. Tra queste: il limitato accesso alla piattaforma nelle aree rurali dalle quali provengono la maggior parte delle potenziali migranti e soprattutto lo scarso monitoraggio nei paesi di destinazione in quanto copre solo la fase pre-partenza e non garantisce un controllo sulle condizioni lavorative nei paesi di destinazione
[6] Sørensen, Ninna Nyberg, Trespassing legal and moral boundaries: Ethiopian domestic workers returned from the Middle East, Governing Climate Mobility in Africa, Bristol University Press, 2025.
[7] Molto spesso il passaporto diventa lo strumento di controllo principale una volta che la migrante entra nel paese con un visto legato alla kafala. Questa pratica si traduce nell’impossibilità per la migrante di uscire dal paese, muoversi liberamente e cambiare lavoro, creando un rapporto di subordinazione e sfruttamento che ne limita la libertà personali.
[8] Tizazu, Ashenafi Tirfie, Ilse Derluyn, and Ine Lietaert, Economic and Social Reintegration of Forced Returnees in Rural Ethiopia, in Multiple layers of migration and the horn of africa: security, climate change, and related concerns.
[9] Ivi









