Storie di bottiglie dal Sud Sudan
Sono una bottiglia di plastica, bella alta, trasparente, pulita. Sto in un frigorifero pieno di cose da mangiare, pomodori, insalata, olive, yogurt, di tanti colori diversi, dei pezzi che sembrano fatti di latte ma duri, altre scatole colorate che non so cosa contengano. Ognitanto la signora che mi ha portato qui mi prende, mi toglie il tappo (lei non lo sa ma a me da un po’ fastidio) appoggia le labbra, rosse, turgide, morbide, beve l’acqua dentro di me a grandi sorsi, con forza decisione, quasi disperata. Molto spesso e’ vestita in maniera sportiva, quando arriva e’ ancora sudata, parla in quel coso nero che appoggia all’orecchio, chissa’ con chi. Parla di liti, gelosia, conflitti, si sente sola. Mi sa che lo e’, io la vedo poco ma e’ sempre di corsa, sempre stressata, mai una parola dolce, non l’ho mai sentita sussurrare, grida sempre, chissa perche. Io sto bene, non mi lamento, sai, sono nata alla periferia di Roma, ero blu, mi hanno portato da Roma in Umbria, riempito di acqua, gas e pure messo un’etichetta colorata che mi ha fatto il solletico. Dopodiche’ mi hanno chiuso in un camion al buio e fatto viaggiare per un giorno intero, quando ho rivisto la luce ero a fianco di tante altre bottiglie come me in un posto luccicante e luminoso.
Sono una bottiglia di plastica, piccolina, ammaccata, con qualche graffio e l’etichetta strappata. Sono nella tasca di una giacca, il signore che mi ha comprato mi prende in mano di tanto in tanto, mi toglie il tappo e beve piano piano. Parla con un signore dalla pelle del colore della sua, diceh che oggi ha venduto poco, per strada, solo 5 accendini e 2 pacchetti di fazzoletti, e’ un po’ preoccupato, fra 3 settimane inizia la scuola e lui deve pagare le tasse, gli zaini nuovi, il libri e tutta la cancelleria per mandare 3 dei 5 figli a scuola. E’ molto magro, attraverso la giacca posso sentire le sue costole, parla in modo strano, diverso dagli operai della fabbrica dove sono nata, dice che se continua cosi se ne va in Francia, dove un suo cugino ha una pizzeria alla periferia di Parigi. Non sembra contento, dice che in un posto chiamato Damasco era ingegnere in una piccola fabbrica ma che da ormai una anno e’ in Italia e si “arrangia” chissa cosa vuol dire arrangiarsi, non sembra contento, non dev’essere una bella cosa. Lui si ne ha fatta di strada, dalla Turchia attraverso i Balcani e poi in Albania, che viaggio! Dice che cosi almeno i suoi figli sono al sicuro anche se gli e’ costato i risparmi di 20 anni di lavoro.
Sono una bottiglia di plastica, non ricordo bene, ma credo di essere nata in Kenya, o in Uganda, appena nata, dopo 3 giorni di viaggio mi hanno portato in un negozio polveroso, ero esposta su uno scaffale in un negozio davanti alla moschea, il posto si chiama Pariang, dicono che sia da qualche parte in uno stato nuovo, che si chiama Sud Sudan. Un uomo con la pancia, la giacca e la cravatta che la gente chiama onorevole mi ha comprata. Avidamente mi ha afferrata e ha bevuto quasi la meta’ dell’acqua che avevo dentro. Mi teneva stretta, con le sue mani grandi, lunghe e sudate. Siamo andati in uno spiazzo pieno di tende bianche che chiamano campo rifugiati, e’ sceso dal fuoristrada bianco, ha dato un ultimo sorso alla poca acqua rimasta, si e’ asciugato con le mani la bocca grande e ha orgogliosamente detto: “Facciamo in fretta che ho fame”. Ha fatto un giro nel campo rifugiati, una distesa marrone e verde, allagata per le piogge degli ultimi 2 mesi, con migliaia di uomini donne e bambini, dicono che sono stranieri ma e me sembrano uguali agli altri. Dopo che il signore alto mi ha gettato per terra sono stata raccolta da una bambina, avra’ 4 o 5 anni, piccolina, magra, scalza,fango fino alle ginocchia e delle meravigliose treccine chiuse in elastici gialli, rosa, rossi e azzurri. Quando mi ha visto il suo viso si e’ aperto in un grande sorriso bianco, grindando:”crystal!” felicissima mi ha preso in mano come nessuno aveva mai fatto, con affetto, sorpresa e devozione. Mi ha preso, portata ad un rubinetto e mi ha riempito d’acqua contentissima ha appoggiato le sue labbra sottile ed un po’screpolate, poi mi ha passata ad una sua amica anche lei lunga magra e dai vestiti sporchi e stracciati. Con me in mano mi sembrano felici, giocano, guardano dentro, mi accarezzano, mi sento amata e venerata come un oggetto nuovo e speciale, nessuno mi aveva mai fatto sentire cosi prima, voglio bene a queste bimbe che mi hanno accolto e amato.
Sono una bottiglia di plastica, e’ ancora buio, non vedo l’ora che finisca questa notte, fa freddo, ieri sera un tipo pallido, con la barba, che guidava una macchina bianca mi ha gettato dalla sua auto in corsa, puzzava di birra. Ora sono qui, sulla rossa terra del Sud Sudan, sono a Wau, stanotte ha anche piovuto, e a pochi metri da me vedevo delle sagome scure appoggiate al muro, sembravano dei sacchi neri, nel buio mi sono addormentata ma ad un certo punto ho sentito delle voci, i sacchi neri hanno iniziato a prendere vita, a parlare a salutarsi, a stiracchiarsi, sorridere e scherzare. Piano piano, nel buio della notte di Wau hanno iniziato a raccogliere pezzi di carta, legno e plastica, li hanno messi insieme e hanno acceso un fuoco, erano in 5 o 6 intirizziti dal freddo e dalla pioggia torrenziale di questa notte equatoriale. Sono tutti ragazzi, alti magri, hanno cicatrici e ferite, i loro occhi a volte quardano in direzioni diverse, i capelli sono secchi, ispidi e impolverati. Alle prime luci del mattino un ragazzetto dallo sguardo vispo mi ha visto e gridando mi ha afferrato ridendo e prendendo in giro gli altri. Dopo circa mezz’ora che mi teneva in mano mi ha versato dentro una sostanza bianca, appiccicosa, densa e dall’odore pungente e penetrante. A me non piace questa sensazione, sono abituata ad avere acqua pura dentro di me, invece questo bimbo dispettoso mi ha messo dentro una cosa che lui chiama “colla” chissa cosa sara’. Sono le prime luci dell’alba, il sole sorge dietro le colline di Wau, arancione sopra i manghi, gli uccelli si alzano in volo, neri contro il cielo rosato dell’alba, il bimbo toglie il tappo, appoggia le labbra e aspira l’aria mista a colla che penetra nei suoi polmoni ed arriva dritta al cervello. Un avvoltoio gracchia e scava fra la spazzatura mentre il fuoco acceso dai bimbi continua ad esalare odore di plastica, poverta’ ed ingiustizia.
E’ mezzogiorno, il bimbo aspira, due, tre, quattro volte; il sole, brillante, e’ alto nel cielo ormai ma gli oggi del bimbo si socchiudono ed il suo cervello si spegne come la luce del sole al tramonto. Il bimbo, spossato e spento, si siede per terra, stordito e sonnolento, dimenticando la fame ed il dolore, come una luna stanca e sporca.