Il calvario delle lavoratrici domestiche etiopi
Su un marciapiede fuori da un edificio nella parte sud orientale di Beirut, ci sono centinaia di donne sedute per terra: si tratta delle lavoratrici domestiche etiopi che dopo anni di servizio presso le famiglie libanesi, adesso sono state letteralmente buttate sulla strada, né più né meno che immondizia. Sono donne di ogni età, alcune hanno dei piccoli con loro. Una giovane donna, che le altre dicono essere mentalmente malata, se ne sta in disparte, cantando tra sé e ignorando la folla che la circonda.
“Che cosa ne sarà di me domani e poi domani? Che cosa farò, dove posso andare? Che cosa mangerò e berrò? Dove sono i miei soldi per gli ultimi quattro mesi di lavoro?”, lamenta Lomi, una ventenne arrivata dall’Etiopia appena un anno fa per aiutare la sua famiglia. Il suo datore di lavoro non la paga da quattro mesi e quando lei glielo ha fatto presente, quello ha chiamato un taxi e l’ha fatta portare lì, davanti all’ambasciata etiope, con una valigia ma senza passaporto.
Ciò rientra nel quadro di una crisi economica senza precedenti che ha investito il Libano negli ultimi mesi, con un crollo record della valuta nazionale e una crescita esponenziale dell’inflazione.
Alle lavoratrici è stato chiesto di lavorare gratuitamente o sono state cacciate di casa e portate direttamente davanti all’ambasciata del loro paese. Così hanno preso ad affollare la strada adiacente l’edificio, passando le notti lì o su un parco nelle vicinanze. Alcune hanno trovato riparo nelle case di accoglienza della Caritas libanese.
Ma il loro calvario non finisce qui. Perché il console etiope Aklilu Tatere Wube non ha voluto commentare la situazione e l’ambasciata non sta dando risposte chiare per il processo di rimpatrio. “Ogni giorno ci dicono di tornare lunedì, ma quando arriva lunedì non succede nulla”, dice Tadasa, una donna che da tre anni lavora in Libano, “voglio tornare nel mio paese e vivere con dignità insieme alla mia famiglia.”
Un funzionario del Ministero del lavoro libanese ha spiegato che la maggiore difficoltà del rimpatrio sta nel fatto che il governo etiope chiede il pagamento di 680 dollari per il biglietto aereo e una cifra tra i 40 e i 100 dollari giornalieri per la permanenza in hotel una volta giunte a destinazione, dove saranno messe in quarantena e sottoposte al test per il Covid. “Ciò rende il rimpatrio impossibile – non solo difficile, ma proprio impossibile”, ha ribadito lo stesso funzionario. Le autorità libanesi hanno cercato invano di persuadere il governo etiope nel desistere da questa onerosa richiesta.
Sono 144.986 le donne etiopi registrate ufficialmente presso il Ministero del lavoro. Il contratto unico che regola il lavoro domestico migrante conferisce la residenza di queste donne presso uno specifico datore di lavoro, senza permettere loro di cambiarlo o terminare il servizio. Dunque il permesso di residenza e di lavoro dipende strettamente dal capo. Lo stesso contratto sancisce che alla fine del rapporto di lavoro venga pagato un biglietto aereo per tornare a casa, cosa che invece non sta avvenendo. Il Ministero del lavoro libanese ha annunciato che avrebbe condotto un’indagine e perseguito penalmente qualsiasi principale trovato ad aver commesso violazioni.
Ma questa magra promessa di giustizia mal si applica in una realtà in cui molte donne sono sprovviste di passaporto, il che rende difficile discernere quali lavoratrici sono state piantate in asso dai loro datori e quali sono ‘irregolari’ perché hanno lasciato il posto di lavoro volontariamente.
La portavoce dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) in Libano, Ziena Mezher, ha affermato che nell’attuale situazione di crisi “molti datori di lavoro non hanno più potuto pagare i salari e le lavoratrici non hanno avuto altra scelta se non quella di cambiare o lasciare il posto di lavoro, diventando di fatto irregolari.”
La crisi non ha fatto altro che enfatizzare i problemi di un sistema già di per sé ingiusto. Si tratta di un sistema chiamato Kafala, molto diffuso nei paesi mediorientali, che incentiva rapporti di lavoro sottoposti ad abusi e senza alcun tipo di protezione dei diritti del lavoratore.
Hayat, una lavoratrice che è ancora in servizio ma che viene all’ambasciata per portare acqua e oggetti di prima necessità, indicando le donne intorno a lei dice: “Non possono né mangiare né bere. Non hanno neppure vestiti con loro…Non ci sono soldi in Libano, va bene, ma è sbagliato abbandonarle così sulla strada. I rifiuti si abbandonano sulla strada, non queste donne.”
CVM, insieme a Celim, Caritas Libano e Caritas Etiopia sta curando il rimpatrio ed il reinserimento a casa delle lavoratrici domestiche etiopi. Al loro arrivo in Etiopia, saranno assistite dallo staff di Cvm e Caritas, attraverso corsi di formazione fino al loro ritorno a casa. Qui poi comincerà il supporto a distanza di CVM nel facilitare il loro reinserimento, creare i collegamenti con gli uffici amministrativi locali che possano assisterle, capire come e in che modo rifarsi una vita normale nella loro terra, per arrivare poi ad avere un sostegno economico con il quale avviare qualche piccola attività che consentirà loro di restare a casa insieme alle proprie famiglie.
Magari alcune di loro sceglieranno ancora il percorso migratorio in futuro, ma lo scopo del nostro progetto è quello di dare loro la possibilità di scegliere liberamente di restare, vivendo con dignità e con una prospettiva economica ragionevole.
Fonti: