La guerra in Ucraina fa crescere la fame in Africa
Continua a crescere a un ritmo allarmante il numero di persone che affrontano un’insicurezza alimentare acuta e che necessitano di assistenza alimentare per il loro sostentamento. Una situazione che rischia di evolvere in una nuova crisi alimentare globale e rende più urgente che mai affrontare le cause profonde delle crisi alimentari piuttosto che continuare a lavorare esclusivamente sulla risposta alle emergenze già verificatesi. È questo uno dei punti chiave che emergono dal rapporto annuale recentemente presentato dal Global Network Against Food Crises (GNAFC), un’alleanza internazionale di Nazioni Unite, Unione Europea, agenzie governative e non governative che lavorano insieme per affrontare le crisi alimentari.
Il documento rivela che nel 2021 circa 193 milioni di persone in 53 paesi o territori hanno sperimentato un’insicurezza alimentare acuta a livelli di crisi o peggio (IPC/CH Fase 3-5). Ciò rappresenta un aumento di quasi 40 milioni di persone rispetto al numero già record di 2020.
Di queste, oltre mezzo milione di persone (570.000) in Etiopia, Madagascar meridionale, Sud Sudan e Yemen sono state classificate nella fase più grave di catastrofe acuta da insicurezza alimentare.
Queste situazioni preoccupanti sono il risultato di molteplici fattori che si alimentano l’uno nell’altro, che vanno dai conflitti alle crisi ambientali e climatiche, con crisi economiche alimentate da povertà e disuguaglianza.
Russia e Ucraina producevano il 21% e il 10% delle esportazioni mondiali di grano. L’Ucraina produce il 15% delle esportazioni globali di mais che in Africa è largamente utilizzato anche nell’alimentazione umana.
E’ stato il Programma Alimentare Mondiale a lanciare l’allarme e chiedere lo sblocco dei porti ucraini per far uscire le derrate alimentari lì bloccate che rischiano di essere distrutte dalla guerra mentre per 47 milioni di persone in Africa farebbero la differenza fra la fame e la sopravvivenza.
Sono tre le principali modalità attraverso cui la guerra in Ucraina sta avendo un impatto sui Paesi africani (anche se con una notevole differenziazione sia tra i Paesi che all’interno di essi):
-
I prezzi dei generi alimentari, che rappresentano circa il 40% della spesa dei consumatori della regione, stanno aumentando rapidamente. Circa l’85% delle forniture di grano della regione sono importate. L’aumento dei prezzi dei carburanti e dei fertilizzanti incide anche sulla produzione alimentare nazionale. L’insieme di questi fattori danneggia in modo sproporzionato i poveri, soprattutto nelle aree urbane, e aumenta l’insicurezza alimentare. La Tanzania dipende da Russia ed Ucraina per il 70% dell’importazione di grano e l’Etiopia per il 31%.
-
L’aumento dei prezzi del petrolio fa lievitare il conto delle importazioni per gli importatori di petrolio della regione di circa 19 miliardi di dollari aumentando i costi di trasporto e altri costi per i consumatori. Gli Stati fragili importatori di petrolio saranno i più colpiti mentre gli 8 Paesi africani esportatori di petrolio beneficiano dell’aumento dei prezzi del greggio.
-
Lo shock è destinato a rendere più difficile un già delicato equilibrio fiscale: aumentare la spesa per lo sviluppo, mobilitare maggiori entrate fiscali e contenere le pressioni sul debito. In generale i Governi sono già in difficoltà, dopo la pandemia a pagare i debiti. Metà dei Paesi a basso reddito della regione sono già in difficoltà nei pagamenti. L’aumento del prezzo del petrolio rappresenta anche un costo fiscale diretto per i Paesi attraverso i sussidi per il carburante, mentre l’inflazione renderà impopolare la riduzione di questi sussidi. L’aumento dei tassi di interesse fa aumentare i costi per i Paesi che hanno contratto debiti. La storia ci insegna che quando aumenta il costo dei debiti contratti dagli stati diminuiscono i servizi sociali per i più poveri.
Se l’Ucraina è lontana dal continente Africano, le conseguenze del conflitto sono terribilmente vicine ed il tentativo di molti Paesi africani di mantenere un atteggiamento equidistante rispetto ai Paesi in guerra, non sarà sufficiente a proteggere le popolazioni dall’impatto della stessa.
Attilio Ascani
Coordinatore Progetti CVM