La piccola pianta che depura | Grazie al Kuluf, comunità isolate hanno avuto accesso all’acqua. Il racconto.
Le tre kebele della Woreda di Hamer (Kara Korcho, Kara Dus e Kara Lebuok), sono esclusivamente di etnia Kara. Legate al Fiume etiope Omo, risiedono in territorio dal diametro di circa 20 km che ne costeggia le sponde. La loro economia è di carattere agro pastorale, basata su coltivazioni legate alle piene del fiume (sorgo e mais). Ciononostante la sicurezza alimentare di questa piccola popolazione è messa alla prova dall’incapacità di prevedere i periodi di piena che spazzano via le coltivazioni.
Essendo pressoché isolati dal resto della Woreda, non hanno modo di accedere al mercato, di conseguenza l’economia ha funzioni di mera sussistenza e gli scambi economici sono su base locale e spesso basati sul baratto. Precedentemente tutti e tre i villaggi erano meta di turismo, ora soltanto la prima Kebele ( Kara Korcho) continua ad essere visitata. Questo ha conseguenze indirette sulla circolazione della moneta.
L’approvvigionamento idrico, fino all’intervento del Cvm, era un’operazione difficoltosa e rischiosa. Raccogliere acqua significava per le donne discendere le impervie sponde del Fiume Omo e arrampicarsi al ritorno con i contenitori pieni. Significava inoltre lottare quotidianamente con il rischio di fratture o di attacchi da parte di coccodrilli. La raccolta di acqua presso il fiume e peraltro inevitabile.
L’ acqua di fiume peraltro, era caratterizzata da un alto livello di torbidità dovuta alle particelle in sospensione trasportate dall’acqua e da un alto livello di contaminazione batteriologica. Con l’health center più vicino a circa 70 km, anche la più normale diarrea poteva essere un evento tragico e mortale.
Il tentativo di perforazione di pozzi, tentato da altri in passato, si era rivelata una operazione fallimentare: tutti avevano un contenuto salino troppo alto per qualsiasi uso.
Ricordo la prima volta che ho incontrato donne Kara e abbiamo parlato dei loro sogni. L’acqua pulita era al primo posto di qualsiasi aspirazione possibile.
Quando abbiamo raccolto la sfida sapevamo che non sarebbe stata un’operazione facile: soprattutto sapendo che coloro che ci avevano provato prima di noi avevano fallito nel loro intento e potevamo deludere ancora aspettative e sogni.
Dovevamo fare i conti con un ambiente arido, caldissimo, lontano da ogni tragitto, in cui soltanto trasportare materiali e convincere gli operai a risiederci non sarebbe stata un’operazione facile. Dovevamo creare strutture che fossero sostenibili, che si prestassero ad economie senza moneta e soprattutto di semplice gestione. Dovevamo infine inserirci in un contesto politico complesso, portando acqua a popolazioni che lottano per non estinguersi, le cui terre si riducono quotidianamente per gli espopri a beneficio degli investitori.
L’idea è nata da un viaggio fatto da Zelalem nei villaggi, nel corso del quale ha realizzato che la soluzione del problema ce l’avevano proprio i Kara: una piccola pianta, chiamata localmente Kuluf, capace di ripulire l’acqua da detriti e materiali pesanti. Inserita in un processo di trattamento che fosse in grado di ripulire l’acqua anche da contaminazione batteriologica, non era più necessario cercare l’acqua sotto terra, ma semplicemente prenderla da dove ce n’era in abbondanza: dal fiume Omo stesso.
Pompe solari spingono l’acqua del fiume innanzitutto in cisterne di vetro resina. Da qui l’acqua è poi spinta per gravità in serbatoi di coagulazione. In tali serbatoi avviene il primo momento del processo di potabilizzazione, quello di flocculazione, mediante utilizzo del Kuluf o scientificamente Maerua Subcordata. Alla flocculazione fa seguito un processo di bollitura che consente la totale disinfezione batteriologica. L’acqua infatti scorre all’interno di una cisterna in vetro resina connessa con pannelli solari termici: essi consentono il riscaldamento progressivo dell’acqua (la temperatura si accresce passando dall’uno all’altro). L’acqua, portata ad ebollizione, cade quindi per gravità all’interno di due serbatoi in vetro resina. Essi servono alternativamente per permettere il raffreddamento e l’immagazzinamento dell’acqua. L’acqua così depurata è poi distribuita attraverso tubature che connettono l’ultimo serbatoio con una fontana per villaggio. La forma del fontanile è stata studiata per facilitare approvvigionamento da parte delle donne e l’altezza è stata individuata tenendo conto della necessità delle stesse di appoggiare le taniche d’acqua che trasportano sulle spalle. Le donne possono pertanto avvicinarsi al fontanile appoggiando la tanica e allo stesso tempo recuperarla legandola sulle spalle, senza compiere operazioni di sollevamento.
Quando abbiamo visto l’acqua scorrere nei rubinetti, vedere la gente raccogliere l’acqua fresca e pulita, è stata un’emozione indescrivibile.
Questo progetto ci ha insegnato molto. Innanzitutto che a volte le soluzioni più semplici non sono quelle che apportano tecnologia complessa, ma quelle che si inseriscono nelle conoscenze e tradizionali già esistenti nelle comunità. Ancora di più questo progetto ci ha insegnato che i sogni sono realizzabili, soprattutto quelli delle donne.
Valentina Palumbo