UNA VITA UNA STORIA: Maria (nome fittizio)
Mi chiamo Maria (nome fittizio), sono nata e cresciuta a West Hararge, con i miei 7 fratelli. I miei genitori sono contadini con un reddito medio. A 16 anni, i miei amici parlavano di emigrare e così ho deciso anche io di seguirli nei Paesi arabi senza informare le nostre famiglia.
Siamo andati nella città di Jigjiga e lì abbiamo incontrato un broker. Ci disse che avremo dovuto pagarlo solo raggiunto il mare. Per raggiungere il mare abbiamo usato macchine ma spesso siamo andati a piedi. Il viaggio non è stato facile, avevamo molta fame e sete. Quando siamo arrivati al mare dovevamo pagare 18.000 birr (circa 315 euro) al broker, per poter salire sulla barca e raggiungere lo Yemen. Tutti hanno chiamato i loro genitori per inviare i soldi, e anch’io ho fatto lo stesso. Loro hanno accettato di inviare i soldi e sono partita per lo Yemen.
Ma lo Yemen non era la metà finale, e così abbiamo continuato il nostro viaggio per raggiungere l’Arabia Saudita. Ma arrivare in Arabia Saudita non è stato così facile come pensavamo. Quando siamo arrivati nello Yemen abbiamo scoperto che c’erano altri broker locali da cui dovevamo passare, cosa che non ci saremmo mai aspettati.
Ci hanno detto bisognava pagare 40.000 ETB (circa 700 euro). Ci hanno minacciato di morte se non avessimo pagato la somma. Tutti noi avevamo paura di chiamare la nostra famiglia e così loro hanno iniziato a torturarci. Ci colpivano usando vari oggetti in metallo. Era così doloroso che la maggior parte di noi sveniva durante le torture. Avevamo tutti paura per la nostra vita, e abbiamo quindi cercato di chiamare la nostra famiglia per salvarci la vita.
I nostri genitori ci hanno mandato i soldi e abbiamo avuto la possibilità di continuare il nostro viaggio ancora una volta. Si trattava di una cifra così alta che credo abbiano venduto la loro terra. Mi sono promessa che avrei lavorato sodo e cambiare la vita della mia famiglia.
Hanno affidato quelli di noi che avevano pagato a uno dei broker locali: eravamo 30 compresi i miei 3 amici. Abbiamo ricominciato il nostro viaggio pieni di speranza. Abbiamo camminato per 2 giorni fino al confine con l’Arabia Saudita. Era notte fonda quando abbiamo raggiunto il confine: c’erano dei soldati di frontiera, ci hanno visto e hanno subito aperto il fuoco su di noi, usando dei lanciarazzi. Hanno ucciso 26 persone, tra cui il broker e i miei 3 amici. 4 persone sono sopravvissute ma tutti noi siamo stati feriti, gli altri tre sopravvissuti erano feriti molto gravemente. Il fuoco mi aveva mangiato le dita e ferito la testa, ma comunque io ero quella in condizioni migliori.
Ci nascondemmo sotto i corpi dei nostri compagni morti, e fortunatamente i soldati pensarono di aver ucciso tutti e se ne andarono.
Io ero l’unica in grado di camminare tra i sopravvissuti. Così mi sono alzata da sotto i cadaveri e ho iniziato a cercare un telefono. Sapevo che il broker avesse un telefono in tasca. Ma prendere il telefono dalla sua tasca è stata una cosa molto difficile da fare perché avevo le mani ferite. Ho dovuto usare le gambe per estrarlo, e solo dopo 3 ore di tentativi sono riuscita a prenderlo, e a darlo a una delle sopravvissute che aveva perso le gambe.
10 persone sono venute a prenderci, e sono riusciti a portarci in un ospedale saudita, per poi nascondersi tra le montagne. Quando siamo arrivati lì siamo stati imprigionati, e il medico ha pulito il sangue e ci ha rimandato in Yemen. Sono rimasta per 3 mesi in due ospedali diversi. Poi sono andata alla Croce Rossa e sono rimasta lì per 6 mesi. Lì mi hanno curato. Quando ho iniziato a sentirmi bene mi hanno rimandato in Etiopia.
Ora ho capito che tutto quello che ho fatto non è servito a nulla. Ho paura di tornare a casa, dopo aver fatto perdere ai miei genitori quello che avevano. Non so se mi accetteranno di nuovo. Ho anche perso quasi tutte le dita e non ho ancora capito se sono in grado di lavorare. Non voglio ancora tornare a casa dai miei genitori, perché ora nella mia situazione, non riuscirei a lavorare, e sarei solo un peso per loro.